Sebbene il parto con ventosa sia una pratica utilizzata nel 10/15% dei parti, può rilevarsi inappropriato e causare danni seri e permanenti e, pertanto, si può richiedere un risarcimento per malasanità.
Parto con ventosa inappropriato: quando andrebbe evitata la ventosa?
Un parto naturale, anche se la donna è completamente dilatata, si può interrompere nell’ultima fase, quella espulsiva. Questo inconveniente si verifica per diversi motivi: perché le contrazioni si interrompono o sono poco efficaci, perché la donna è stanca e non effettua spinte decisive, perché la testa è incastrata e non scende, o per via dell’epidurale).
A quel punto il personale sanitario decide di effettuare un cesareo d’urgenza, quando è possibile, oppure di utilizzare la ventosa o il forcipe, trasformando il parto naturale in parto operativo.
Ma un uso incauto o inappropriato di questi strumenti può rivelarsi molto rischioso e provocare gravi danni al neonato o alla mamma, come riportano molti casi di cronaca.
Una famiglia che stiamo seguendo, ad esempio, si è ritrovata ingabbiata in una situazione irreversibile che vede vittima in primo luogo il figlio, per via di un parto operativo non eseguito in maniera adeguata, soprattutto perché il bambino, alla nascita, era altamente prematuro (30 settimane).
Le linee guida nazionali di SIOG, internazionali di FIGO e di tutte le altre società scientifiche internazionali, vietano l’applicazione della ventosa su un feto prematuro, in quanto il vuoto che si forma provoca trazione e spostamento del parenchima del sistema nervoso centrale con conseguente danno tessutale e vascolare, esattamente quello che è successo nel caso in esame, provocando danni neurologici permanenti e irrecuperabili, sia a breve che a lungo termine.
In questo caso la scelta incomprensibile di applicare una ventosa sul feto prematuro a 30 settimane di gravidanza è stato l’elemento causale più forte rispetto alla fragilità legata alla prematurità.
Ma i danni di un parto con ventosa non si verificano solo sui feti prematuri, ma anche su bambini dalla 36° settimana in poi. Un altro elemento che dovrebbe scoraggiare l’utilizzo della ventosa è sicuramente la sproporzione cefalo-pelvica, ovvero quando la testa del bambino risulta essere più grande della dimensione del canale del parto materno.
In linea di massima ci sono dei casi in cui non si dovrebbe mai utilizzare la ventosa:
- Il bambino ha meno di 34 settimane di gestazione (le ossa e i tessuti sono troppo fragili per sopportare le trazioni e la pressione della ventosa)
- La presentazione del viso o non apicale
- Il precedente campionamento del cuoio capelluto o il posizionamento degli elettrodi sulla testa stessa sono controindicazioni perché queste procedure aumentano il rischio di emorragia sotto la pelle della testa o emorragia esterna alla ferita del cuoio capelluto.
- Inoltre, sospetta sproporzione cefalo-pelvica, malattia di demineralizzazione fetale, del tessuto connettivo e diatesi emorragica fetali sono controindicazioni.
L’utilizzo della ventosa deve essere limitato a quanto indicato qui di seguito:
- un tempo totale di 10 minuti di trazione o 15-30 minuti totali. Il tempo totale è calcolato dall’inizio della procedura fino a quando il bambino è fuori.
- Tre contrazioni per la fase di discesa (la parte della procedura dal momento dell’utilizzo della ventosa fino a quando la testa del bambino è disceso nel bacino)
- Tre contrazioni per la fase di estrazione e di uscita
- Da 2 a 3 trazioni della ventosa
E’ importante notare che il basso peso alla nascita e bambini prematuri hanno ossa più fragili e dei tessuti molli e sono molto sensibili alle lesioni. Le pressioni di estrazione applicate a questi bambini dovrebbero essere notevolmente ridotti per evitare traumi e lesioni.
Parto con ventosa: possibili danni e conseguenze
Se un parto con ventosa non viene eseguito correttamente si può prolungare il tempo del parto (e nel in cui si debba far nascere il bambino con urgenza questa può essere una grave complicanza) o ferire il bambino (traumi alla testa, fratture del cranio, emorragie cerebrali che possono causare la morte, o lesioni permanenti nel bambino come, ad esempio, paralisi celebrale infantile o l’encefalopatia ischemica ipossica).
Un esempio di trauma molto ricorrente è l’ematoma subgaleale, una complicanza che si verifica quando le vene emissarie sono danneggiate e il sangue si accumula in uno spazio virtuale tra la galea aponeurotica e il periostio delle ossa craniche. Tale quadro può espandersi senza contenimento arrivando alle orbite e alla nuca e provocare ipovolemia, shock e la morte. Tale complicanza è stimata nelle casistiche a termine di gravidanza intorno allo 0,5-0,7%, e di tutte le emorragie subgaleali il 48% è causata dalla ventosa, il 28,4% nel parto spontaneo, il 13,8% con il forcipe, e l’8,9% nel taglio cesareo.
Nel caso dei nostri assistiti l’aggravante sta nel fatto che i monitoraggi del benessere fetale non sono mai stati rassicuranti durante il travaglio e riportavano sofferenza, e inoltre la mamma manifestava sintomi di processi infiammatori e infettivi, che si evidenziavano attraverso le alterazioni patologiche del battito cardiaco del bambino, anche prima che la donna entrasse in travaglio.
Infatti, già 4 giorni prima del parto, gli esami ematochimici della mamma dimostravano un aumento oltre il limite dei globuli bianchi con neutrofilia, indice di un’infezione batterica in corso che persisteva nel controllo successivo (2 giorni dopo) con in aggiunta un aumento della PCR, che evidenziava un processo infiammatorio in corso.
Questi dati rendevano evidente un’infezione placentare che avrebbe dovuto imporre un espletamento del parto mediante taglio cesareo. Infatti, quando si sospetta un processo infettivo in corso, non esistono trattamenti più efficaci e tempestivi rispetto al taglio cesareo, tali da preservare feto e madre dagli esiti più gravi. Dall’esame istologico della placenta risultò infatti una corionamniotite.
La corionamniotite è un’infiammazione delle membrane fetali causata da un’infezione batterica, precisamente dall’ascesa di batteri nell’utero dalla cavità vaginale e che colonizzano tessuti sterili fino al momento della rottura delle membrane; la sua incidenza aumenta in funzione del tempo supposto dalla rottura delle membrane, per questo solitamente non si aspetta oltre le 24 ore da tale evento per indurre il parto.
Conclusioni
Se ti riconosci in quanto appena descritto, allora potresti pensare di contattare degli avvocati specializzati in risarcimenti da danni medici e malasanità ginecologica.
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Aiuto Malasanità dispone di un team di ginecologi esperti in danni da parto, che saprà dirti se hai diritto a un risarcimento danni.